mercoledì 15 maggio 2013

Terramatta - La Grande Guerra dagli occhi di Vincenzo Rabito





In relazione al documentario "Terramatta;", visionato durante l'odierna lezione di Storia della Tecnologia, segue il commento video ad uno dei passi del libro di Vincenzo Rabito, inerente all'assalto del 28 ottobre 1918, che l'autore visse in prima persona. La lettura e l'interpretazione della lucida descrizione degli eventi spetta a Rosario Mangiameli, docente di Storia Contemporanea all'Università di Catania. Per chi volesse seguire il testo originale, che si è distinto per l'impiego di quella che sembra quasi "una nuova lingua" (si ricorda che l'autore era semianalfabeta), ecco uno stralcio dell'opera che, edita ufficialmente nel 2007, si era guadagnata già sette anni prima il Premio Pieve, con la seguente motivazione:

 <<Vivace, irruenta (sic), non addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. L'opera è scritta in una lingua orale impastata di "sicilianismi", con il punto e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d'Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare. L'asprezza di questa scrittura toglie la speranza di vedere stampato, per la delizia dei linguisti, questo documento nella sua integralità. "Il capolavoro che non leggerete", così un giurato propone di intitolare la notizia sull'improbabile pubblicazione di quest'opera>>




"L’assalto del 28 ottobre 1918. Come cane arrabiate (pp.112-113)

E diedro di noi c’eri un battaglione di carabiniere con li mitre belle pontante che stavino atento: che se qualcuno di noi si avesse refiutato di avanzare, queste avevino l’ordene di spararene.
E così partiemmo, che paremmo uscite del manicomio, perché erimo deventate tutte pazze. E così, arrevammo alla prima linia austrieca, che allinea d’aria c’erino 25 metri. E se avemmo ammisorare la destanza, che prima dovemmo fare la discesa e poi passare il fiume e fare la salita, c’erino più di 200 metre di corsa, avante che arrevammo ner fiume, con quello terreno bagnato e pietre e tanto filo spenato e tante trapole che c’erono messe vorrecate. D’ognuno di noi aveva cascato 20 volte, di quelle che ancora erimo vive.
Poi, stavamo con la paura, ché li austriece ci attaccavano con bompe ammano e fuoco di mitragliatrice, che d’ogni 5 di noi ni moreri 3. E quinte, quanto passammo il fiume, che poi veneva la salita, a li austriece ci veniva commito a butare bompe, e magare rozelavino crosse pietre. Quinte, per forzza, tutte dobiammo morire.
E finarmente, doppo tante soldate morte, che erino tutte morte e ferite nel fiume, abiammo conquistato la posezione. E così, tutte li bompe che avemmo nel tascapane, tutte ci l’abiammo scarrecato dentra la triceia. Che forino molto forbe, che prima che revammo noie, si ne sono scapate, queste cechine! Perché noi, quelle che per fortuna ancora erimo vive, arrevammo nella sua posizione con la scuma nella bocca come cane arrabiate. E tutte quelle che trovammo l’abiammo scannate come li agnelle nella festa di Pascua e come li maiala. Perché in quello momento descraziato non erimo cristiane, ma erimo deventate tante macillaie, tante boia, e io stesso diceva: «Ma come maie Vincenzo Rabito può essere diventato così carnifece in quella matenata del 28 ottobre?» Che io, durante tutta la querra che aveva fatto, quanto vedeva a qualche poviro cechino ferito, se ci poteva dare aiuto, ci lo dava. Ma in questa matina del 28 ottobre era deventato un vero cane vasto, che non conosci il padrone, che fu propia in queste sanquinose ciorne che mi hanno proposto una midaglia a valore miletare…"


1 commento:

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